
Si inizia qui con Il Boro un ciclo, breve, di post dedicati a categorie e figure rappresentative e protagoniste, pur troppo, della temperie dei nostri tempi (in preparazione: parte seconda – la Canaglia; parte terza – il Benpensante nelle due declinazioni (provvisorie): a) fenomenologia ingravescente: il Bigotto cattolico; aa) fenomenologia comune: il Moralista spicciolo).
* * * * *
Negli ultimi quindici giorni, come ognun sa (con questa colorita espressione, in maniera tuttavia abbastanza supponente, il severo Professore di Diritto processuale civile definiva le circostanze di comune, generale esperienza), ha nevicato a Roma. L’ultima volta degna di rilievo, e viva nella memoria di chi scrive, era stato nel biennio 1985-86, e anche questo veniva affermato quale esempio di fatto notorio dal medesimo Docente. Ma non voglio parlare certo di diritto, sibbene (OK, questa è l’ultima espressione mutuata dal compianto Prof.) di ciò che la nevicata del 2012 a Roma ha offerto quale splendida occasione quella di verificare con mano la teoria secondo cui se Roma è quello che è, è a causa di un principio di ineffettività (http://it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_effettivit%C3%A0) che, in buona parte, potrebbe risiedere nel carattere naturale degli stessi romani, dei quali ovviamente chi redige questa nota – lo si dice a scanso di equivoci – fa parte.
La peculiare indole degli abitanti dell’Urbe, assicurava un archeologo, sembra sia nota sin dai tempi della Roma imperiale; e pare altresì che non sia migliorata coi tempi. Naturalmente la stragrande maggioranza dei romani è composta da persone normali, industriose e talché rassegnate a dover vivere in una città che dovrebbe essere una Capitale di livello mondiale e che invece, come è sotto gli occhi di tutti, spesso non è all’altezza della fama di Città Eterna. Il traffico, vera e propria croce di coloro che la abitano; la scarsa pulizia di molte, moltissime strade; le singolari figurazioni espressive note come “graffiti” e che rimandano direttamente alle incisioni rupestri preistoriche nelle quali sono artisticamente, seppur rozzamente, rappresentate creature munite di robuste corna, indubbiamente antenati diretti – ed in linea neppure troppo distante – degli odierni “graffitari”; il senso civico purtroppo non proprio a livelli scandinavi manifestato da alcuni concittadini; per non parlare della preminenza del governativo ed istituzionale sopra le esistenze dei comuni cittadini, in una città che ospita la Presidenza della Repubblica, il Governo con tutti i ministeri, le due camere del Parlamento, le Ambasciate e Consolati dei paesi esteri, una pletora di Enti territoriali e non, uno Stato intero (la Città del Vaticano), tutte queste delizie rendono la permanenza di lungo periodo (e fors’anche di breve, ma questo è un altro discorso) da parte degli individui che romani principiano ad essere, secondo il principio dello jus soli o che tali divengono per fenomeni di naturalizzazione più o meno legittimi, un’esperienza di cui parlare con impressionante, invariabile frequenza, come indubbiamente saprà chiunque, non romano, si trovi ad avere a che fare con uno di noi.
Il tipico discorso tra romano e non romano verterà infatti, in limine, sui guasti e sconquassi della città, opera di questo o di quest’altro politico che ha governato o governa dal Campidoglio. Poco manca che, l’interlocutore – se ne è a conoscenza – venga a pensare che il vero nome di Roma, che non è Roma ma sibbene un appellativo segreto che si è perso nei secoli (http://it.wikipedia.org/wiki/Fondazione_di_Roma#Origine_del_nome_nella_letteratura_antica), non sia stato più pronunciato, da tempo immemore, quasi per un senso di vergogna.
Per fortuna, a tale primevo atteggiamento, subentra immediatamente dopo un senso di riscatto misto ad orgoglio proprio dei figli della Lupa, in forza del quale il discorrere viene tosto indirizzato, senza soluzione alcuna di continuità, sulle bellezze, sui punti di forza e sulle attrattive della Capitale, in primo luogo invariabilmente “il clima mite”, specie nei confronti degli amati/odiati cugini milanesi, ai quali si rimprovera bonariamente di vivere in mezzo a nebbie e geli, quasi abitassero in una Groenlandia padana.
Ma, come detto, quest’anno il clima si è rivelato essere traditore anche nella Città più bella del mondo, come diciamo noi romani (nonostante ci sia chi, della sua presente incarnazione, la pensi diversamente: http://www.romafaschifo.com). Ed è qui che si è distinto, in tutto lo splendore che lo contraddistingue, il personaggio che meglio incarna un certo spirito comune a queste latitudini: il Boro.
Innanzittutto occorre spiegare il significato peculiare del termine. Deriva questo – anche se l’etimologia resta incerta – dall’originario sostantivo burino, forse quale sua apocope o più precisamente “retroformazione”, erroneamente percepito come diminutivo. Ma si divaga. L’importante è che con burino, e quindi con il derivativo boro, si designa “in dialetto romanesco… il contadino, il campagnolo e, in senso esteso, la persona rozza o volgare.” (su tutto fonte Wikipedia, voce: “burino”).
La divertente Nonciclopedia, versione satirica della già ricordata Wikipedia, si spinge ovviamente più in là, arrivando senza tema ad affermare: “nell’accezione attuale il termine burino ha assunto un significato più vasto, infatti può essere definito come l’abitante tipico di Roma.” (Nonciclopedia, voce: “burino”).
Insomma, un cafone (in senso ampio) spesso ripulito, di indole greve ma che, tipicamente, si dà pure arie e fa mostra – con effetti talora comici – di essere importante, informato, sapiente. Ognuno può aggiungere al significato sfumature più o meno ampie: il Boro in quest’ottica resta fenomeno dai contorni sfuggenti, nonostante l’ampia diffusione del soggetto.
Esiste tuttavia, a parere di chi scrive, una lieve ma percettibile differenza tra il Burino/Boro e l’altro grande esponente di una certa romanità, il Coatto. Si preavverte che non tutti sono d’accordo, per alcuni la differenza tra le due figure è chiara risiedendo nell’origine invariabilmente borgatara o comunque popolare del Coatto (così, ad esempio, ancora Wikipedia, voce: “coatto”), ove invece il Boro può invece appartenere anche a classi più agiate, ma la mancanza di educazione, cultura o sensibilità del quale ne appalesa immediatamente l’appartenenza alla grande famiglia della burinaggine innata od acquisita.
Invece la differenza fondamentale e sostanziale si deve riconoscere in ciò che il Coatto viene non già ad essere tale in forza di estrazione sociale bassa, il che cozzerebbe patentemente contro il principio di eguaglianza sancito con solennità dalla nostra Carta Costituzionale (art. 3) – non indicando la stessa alcuna differenza tra le due figure appena ricordate, e si sa che ubi lex voluit dixit – ma in ragione di una certa esagerazione nei suoi comportamenti, che divengono quasi stereotipati, prevedibili e privi di un reale approfondimento, quasi che i Coatti si calassero in una parte, con indolenza e svogliatezza (ciò che tuttavia è tipicamente il linea con l’indole capitolina), e ciò sia nelle manifestazioni sociali più comuni (ad. esempio ad un ricevimento; in fila all’ufficio postale; in coda ad un semaforo), che nelle occasioni più genuinamente tipiche del personaggio (ad esempio in una rissa in discoteca per uno sguardo rivolto alla propria fidanzata, in un improvvisato e rusticano duello per motivi automobilistici ecc.); insomma, come se si trovassero in ogni momento ad essere protagonisti od almeno comprimari d’un romanzo di Pasolini o di una pellicola di Verdone.
La verità è che il Coatto è immediatamente riconoscibile, e la stigmatizzazione generale – con relativa sanzione sociale a far da contrappunto – segue invariabilmente l’episodio di coattaggine (resta qui preferibile, in linea con il dialetto romanesco, la lezione che impone il raddoppio della g), rendendo manifesto il carattere addirittura paradossale del protagonista in parola; e scarsamente seguito se non da altri appartenenti al medesimo branco.
Non così per il Boro, che costituisce realtà ed entità maggiormente trasversale, imprevedibile nella sua manifestazione: la figlia di un noto luminare può, d’improvviso, davanti ad una vetrina in cui scorge un attore di un serial nostrano, mostrare improvvisamente sintomi di boraggine arrivando a frantumare quasi la vetrina appicciandoci il viso pur di scorgere meglio l’apprezzato interprete; il noto professionista, quando antepone al suo consueto aplomb la sua fede calcistica, dando in escandescenze ad una riconoscibilmente giusta, ma tuttavia contestata, decisione arbitrale, diviene istantaneamente Boro; la donna medio-alto borghese impellicciata (segno esso stesso di pessimo gusto e boraggine d’eccellenza, per non dir di peggio) che tenta di passare avanti alla cassa del supermarket di moda dai prezzi preoccupanti, è inappellabilmente Bora.
Insomma, senza voler andare avanti a forza di esempi, è chiaro che la detta boraggine può affiorare in ognuno di noi, in ogni momento o quantomeno in selezionate ma purtroppo non così rare occasioni.
Per completezza si indica che sono esenti da attitudine ad esser Boro, nella gran maggioranza dei casi, solo i nobili autoctoni con migliaia o almeno centinaia di anni di nobiltà alle spalle, sui quali la boraggine medesima scivola addosso senza attecchire menomamente; memorabile la scena de La dolce vita nella quale Marcello Mastroianni va ad una grande festa in un castello più o meno nel viterbese, e lì trova effettivamente una gran quantità di soggetti affetti dalla disfunzione qui in esame; sino a quando arriva l’anziana principessa, che parla in un romanaccio abbastanza spiccato ma che, pur mantiene una invidiabile classe e superiorità rispetto ad ognun altro dei presenti.
Insomma, l’attitudine alla già più volte nominata boraggine può insidiare ciascuno di noi comuni cittadini; è un rischio concreto da tenere in considerazione.
Discende da ciò che, l’episodio protrattosi per alcuni giorni della neve a Roma, non poteva che trasformarsi in un trampolino dal quale il Boro (si intende qui un campione medio dalla classe dei soggetti in esame) ha approfittato secondo l’indole che gli è propria, senza indugio.
Alla prima nevicata il suddetto si è trovato spiazzato. A poco sono valse le previsioni meteorologiche che, effettivamente, davano per certa – in minore o maggiore misura – la neve in città: egli non se l’aspettava, per il carattere naturalmente scettico che, altro carattere distintivo e peculiare, lo pervade; si è trovato di fronte all’elemento nuovo e “nemico”, ed ha reagito con malumore e rabbia, è tornato a casa intirizzito (fatto inaccettabile, il Boro preferendo la comodità ed il caldo estivo ad un rigore quale che esso sia – sempre che non si parli di quello che sta per esser calciato dalla squadra del cuore) e, esagerando un po’, ha sostenuto aver superato prove degne di un passaggio a nord-ovest: “Sono rimasto cinque ore in macchina”; “C’era mezzo metro di neve”; “Se fossi stato/a tu alla guida non ce l’avresti fatta, ho superato migliaia di macchine ferme, e sì che erano [famosa marca] a trazione integrale e dotate di gomme tecniche” (in quest’ultimo caso palesi l’iperbole autocelebrativa e il linguaggio da addetti ai lavori, altri preoccupante ma decisi tratti distintivi della categoria). Queste alcune delle voci raccolte il primo giorno.
Ma l’indomito spirito del Boro naturalmente non poteva restare inerte di fronte ad una novità così succosa; indi, già l’indomani, che – a quanto si ricorda – coincideva con il principiare del fine settimana, il suddetto ha mostrato, a se stesso così come agli altri, di trovarsi a suo agio nel candido, soffice elemento: e si son viste frotte di viaggiatori metropolitani (nel senso: passeggeri delle due linee metro di Roma, gli autobus e altri mezzi pubblici viaggiando a regime assai ridotto nell’occasione) diretti a Via del Corso, serbatoio privilegiato da sempre della categoria (contra chi la ritiene invece appannaggio esclusivo dei già ricordati sopra Coatti) e/o a Piazza Venezia e/o al Colosseo e/o, ancora, al Pincio, altro luogo topico e focale del popolo boro; e così via. Il fatto è che, specie nell’ultimo dei luoghi ricordati, il Boro non si è fatto trovare impreparato: moon boot e tute da sci imperversavano ad ogni angolo, il che sarebbe in linea di massima comprensibile; un po’ meno il trovare – da un canto – splendide fanciulle calzanti stivaletti con vertiginoso tacco a spillo; dall’altro, e più grave, caschi da sci degni, a parere di chi scrive, di una discesa libera valida per il mondiale, e naturalmente paia e paia di sci da specialità alpina (non di fondo, forse disdegnati in quanto troppo elitari e poco remunerativi in fatto di immagine), di caratura specifica e , come si è detto, tecnica, con tutto il contorno di indispensabili accessori (gialli occhiali, guanti polari e racchette sagomate, si immagina, per una migliore resa aerodinamica): per il che sembrava di vedere I. Stenmark ai tempi d’oro mentre si apprestava a vincere l’ennesima gara: il tutto, appunto, nella centrale Villa Borghese, ma anche in una delle innumere salite di cui la Città dei Sette Colli è ben munita, e così pure, purtroppo, in più centrali ed alla moda luoghi.
Ma chi scrive ha visto in piena città anche l’impiego di mezzi, in specie quad-bike pensate (sempre secondo Wikipedia) “per il trasporto di persone e cose su percorsi fuoristradistici particolarmente difficili e accidentati, quali mulattiere o greti di torrenti.”, magnificamente condotte da piloti in tute integrale e casco quali non ci si ricordava dai tempi dell’indimenticato Mister Kappa (fumetto anni ’70 ed ’80 di Cicogna e Blasco: mi scuso con i lettori più giovani se non possono ricordarlo).
Milioni di milioni, poi, le foto ricordo scattate nell’occasione dal Boro fremente in compagnia (e chi scrive, pure, si è trovato qui a far parte dei più; per fortuna non accompagnato da una apparecchio fotografico tropicalizzato con specifiche guarnizioni o-ring e luminosi zoom professionali dall’ampia escursione e imponenti dimensioni, il tutto per fotografare la ragazza con lo sfondo dell’Anfiteatro flavio lievemente imbiancato), i lanci di palle di neve, i candidi pupazzi costruiti e tosto abbelliti di sgargianti materiali di fonte e provenienza varie a mo’ di anatomici (talora irriverenti) particolari.
La neve, naturalmente, è balzata al primo posto nelle discussioni, sia in quelle – più rare – faccia a faccia, che in quelle intrattenute tramite smartphones di ultima generazione, custoditi in astucci e fodere dall’alto fattore di protezione; di sovente aventi quali interlocutori membri della propria famiglia (la mamma in primo luogo, ai timori della quale si fornivano ampie, avvedute rassicurazioni); ovvero amici, magari persi un po’ di vista negli ultimi tempi, e che si è colta al volo l’occasione di sentire giusta la bianca precipitazione (e magari il nuovo piano tariffario stipulato per l’occasione, dietro la blanda sollecitazione dell’ultimo spot televisivo con calciatore/comico/bellezza di turno).
E così pure il Boro, superato naturalmente il primo, già descritto, momento di stupore all’innevamento della città, si è prontamente munito di catene da neve per la sua (in genere recente, sgargiante) vettura, per le quali ha, purtroppo, ha dovuto talora pagare un sovrapprezzo, non per fenomeni speculativi che rimangono indimostrati (anche se popolarmente presupposti e discussi), ma forse perché desiderava un modello alpino dal grip impeccabile e dal montaggio lampo; e con esse, finalmente, ha potuto circolare nuovamente in sicurezza e per l’invidia del vicino la cui macchina era sepolta dai quindici-venti centimetri di neve; e che non aveva pensato di alzare i tergicristalli, come si fa quando la temperatura scende, diciamo, a -15 °C.
E così via: insomma, ci si perdoni se si è preso questo episodio limitato quale indicatore di stato per un intero genus; resta il fatto, che il Boro ricorderà e la cui memoria trasmetterà un giorno al figlio, piccolo Boro in potenza (Boretto opure Boriello, secondo una variante meno frequente ma tuttavia attestata), che si è trattato di un tripudio irripetibile per ogni festante rappresentante del genere in esame, che ha potuto rallegrarsi e rallegrare una città altrimenti costretta sotto un inconsueto, plumbeo cielo da neve.
Un grande rito, che ha fatto tornare ogni cittadino, e così pure ogni Boro, ai felici tempi dell’infanzia, felice di ritrovare – per una volta – la spensieratezza, in una Città sì eterna, ma eternamente piena di problemi.
Ma ci si penserà domani: finita la grande euforia, si ricadrà – ognun di noi, e comunque chi scrive – nelle più misurate, meste tentazioni di boreggiare (si perdoni il neologismo) affaccendati nelle comuni, quotidiane mansioni.
Alla prossima!
(foto di Giorgio Cara/AF/StudioMacro)