Armstrong (1930-2012) e Laika (1954-1957)

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , on 26 agosto 2012 by Giorgio Cara

È stato detto, anni fa, che del ventesimo secolo – nelle epoche future – verrà ricordato un solo uomo: il primo a camminare su un altro corpo celeste.

Il 25 agosto 2012 è morto l’uomo, nasce il mito.

Ma oggi desidero parlare anche del primo essere vivente spedito, suo malgrado, in orbita: la cagnetta Laika, che fu scientemente addestrata e sacrificata allo scopo, e morì nel vuoto dello spazio, forse dopo un’agonia di dieci giorni. Forse non verrà ricordata come Armstrong: ma è stata solo una delle innumerevoli vittime animali uccise in modo orribile in nome del progresso umano. Forse i nostri pronipoti si chiederanno, con maggiore lucidità di noi, se ne sarà valsa la pena. Io scommetto che risponderanno di no.

Non può esistere progresso dove ci sono stati sfruttamento e morte.

Laika: sei già nel mito.

(foto da wikipedia- fonte NASA; http://www.zarya.info/Diaries/Sputnik/Sputnik2.php)

Pastori Tedeschi (Ipse dixit)

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , , , , , , , on 3 giugno 2012 by Giorgio Cara

 

“Vengo da una famiglia numerosa […] e anche noi, come Lei con Suo fratello, vedevamo alla televisione Il commissario Rex.”

 

– Giuliano Pisapia, sindaco di Milano, a Papa Benedetto XVI in visita Pastorale all’Arcidiocesi di Milano e per il VII incontro mondiale delle famiglie, il 2 giugno 2012.

A quattro giorni dall’ultima scossa del terremoto in Emilia del 29 maggio 2012 che ha provocato 17 morti, 350 feriti e 15.000 sfollati.

Il medesimo giorno della contestata – per la prossimità temporale al terremoto – parata militare a Roma in occasione della Festa della Repubblica Italiana.

Il medesimo giorno della ratifica da parte della Commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior, la Banca vaticana, presieduta dal Card. Tarcisio Bertone, della sfiducia al presidente E. Gotti Tedeschi.

Fonte: Corriere della Sera.it 3 giugno – ANSA.it 2 giugno 2012.

Time for rebels a Roma. Immagini di rivolta contro il potere.

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , on 6 aprile 2012 by Giorgio Cara

Il mio buon amico Andrea Festa ha pubblicato sulla rivista online MENTinFUGA un articolo su un’interessante mostra fotografica in corso a Roma: Time for rebels, ospitata dalle Officine Fotografiche, che ci racconta, attraverso una quarantina di scatti di reportage estremo, “gli scenari più caldi del pianeta”. Lo trovate qui.

Modestia

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , , , , , on 11 marzo 2012 by Giorgio Cara

Nel 1905 il giornalista neozelandese Harold Williams, noto poliglotta, volle incontrare il grande scrittore Lev Tolstoj e si recò in Russia nella tenuta dello scrittore, Jasnaja Poljana. L’ammirazione di Williams per il romanziere era grande, e non solo per la produzione letteraria di questi: per esempio entrambi erano ferventi vegetariani e sostenitori della non-violenza (sull’attivo impegno di Tolstoj a favore del benessere degli animali vedi qui).

Williams si esprimeva fluentemente in russo, e questo impressionò Tolstoj, che dovette essere anche contento quando il suo ospite affermò di aver voluto imparare quell’idioma proprio per poter leggere il romanzo Anna Karenina in originale.

La cosa incuriosì Tolstoj, che gli chiese quindi, quante altre lingue conoscesse. Williams rispose semplicemente: “alcune“.

Parlava 58 lingue e svariati dialetti.

(foto:  Wikipedia – voce: Harold Williams)

Uno, nessuno e centomila?

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , on 28 febbraio 2012 by Giorgio Cara

Leggo questa notizia:

Firenze, 28 feb. (Adnkronos) – Il comandante della Costa Concordia Francesco Schettino “sabato non sara’ all’udienza dell’incidente probatorio” in programma al teatro Moderno di Grosseto. […]
(http://www.adnkronos.com/IGN/News/Cronaca/Giglio-Schettino-non-sara-sabato-a-incidente-probatorio-Grosseto_313031575318.html)

Se non fosse una tragedia quella di cui si sta parlando, si potrebbe pensare  davvero ad una commedia di Pirandello.

(foto:  Wikipedia – voce: Luigi Pirandello)

Pensiero della sera

Posted in Uncategorized with tags , , , , on 25 febbraio 2012 by Giorgio Cara

 

“Sono ideologicamente contrario alle ideologie.”

 

(foto di Giorgio Cara/AF/StudioMacro)

Patologia Sociale – parte prima: il Boro

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 13 febbraio 2012 by Giorgio Cara

Si inizia qui con Il Boro un ciclo, breve, di post dedicati a categorie e figure rappresentative e protagoniste, pur troppo, della temperie dei nostri tempi (in preparazione: parte seconda – la Canaglia; parte terza – il Benpensante nelle due declinazioni (provvisorie): a) fenomenologia ingravescente: il Bigotto cattolico; aa) fenomenologia comune: il Moralista spicciolo).

* * * * *

Negli ultimi quindici giorni, come ognun sa (con questa colorita espressione, in maniera tuttavia abbastanza supponente, il severo Professore di Diritto processuale civile definiva le circostanze di comune, generale esperienza), ha nevicato a Roma. L’ultima volta degna di rilievo, e viva nella memoria di chi scrive, era stato nel biennio 1985-86, e anche questo veniva affermato quale esempio di fatto notorio dal medesimo Docente. Ma non voglio parlare certo di diritto, sibbene (OK, questa è l’ultima espressione mutuata dal compianto Prof.) di ciò che la nevicata del 2012 a Roma ha offerto quale splendida occasione quella di verificare con mano la teoria secondo cui se Roma è quello che è,  è a causa di un principio di ineffettività (http://it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_effettivit%C3%A0) che, in buona parte, potrebbe risiedere  nel carattere naturale degli stessi romani, dei quali ovviamente chi redige questa nota – lo si dice a scanso di equivoci – fa parte.
La peculiare indole degli abitanti dell’Urbe, assicurava un archeologo, sembra sia nota sin dai tempi della Roma imperiale; e pare altresì che non sia migliorata coi tempi. Naturalmente la stragrande maggioranza dei romani è composta da persone normali, industriose e talché  rassegnate a dover vivere in una città che dovrebbe essere una Capitale di livello mondiale e che invece, come è sotto gli occhi di tutti, spesso non è all’altezza della fama di Città Eterna. Il traffico, vera e propria croce di coloro che la abitano; la scarsa pulizia di molte, moltissime strade; le singolari figurazioni espressive note come “graffiti” e che rimandano direttamente alle incisioni rupestri preistoriche nelle quali sono artisticamente, seppur rozzamente, rappresentate creature munite di robuste corna, indubbiamente antenati diretti – ed in linea neppure troppo distante – degli odierni “graffitari”; il senso civico purtroppo non proprio a livelli scandinavi manifestato da alcuni concittadini; per non parlare della preminenza del governativo ed istituzionale sopra le esistenze dei comuni cittadini, in una città che ospita la Presidenza della Repubblica, il Governo con tutti i ministeri, le due camere del Parlamento, le Ambasciate e Consolati dei paesi esteri, una pletora di Enti territoriali e non, uno Stato intero (la Città del Vaticano), tutte queste delizie rendono la permanenza di lungo periodo (e fors’anche di breve, ma questo è un altro discorso) da parte degli individui che romani principiano ad essere, secondo il principio dello jus soli o che tali divengono per fenomeni di naturalizzazione più o meno legittimi, un’esperienza di cui parlare con impressionante, invariabile frequenza, come indubbiamente saprà chiunque, non romano, si trovi ad avere a che fare con uno di noi.
Il tipico discorso tra romano e non romano verterà infatti, in limine, sui guasti e sconquassi della città, opera di questo o di quest’altro politico che ha governato o governa dal Campidoglio. Poco manca che, l’interlocutore – se ne è a conoscenza – venga a pensare che il vero nome di Roma, che non è Roma ma sibbene un appellativo segreto che si è perso nei secoli (http://it.wikipedia.org/wiki/Fondazione_di_Roma#Origine_del_nome_nella_letteratura_antica),  non sia stato più pronunciato, da tempo immemore, quasi per un senso di vergogna.
Per fortuna, a tale primevo atteggiamento, subentra immediatamente dopo un senso di riscatto  misto ad orgoglio proprio dei figli della Lupa, in forza del quale il discorrere viene tosto indirizzato, senza soluzione alcuna di continuità, sulle bellezze, sui punti di forza e sulle attrattive della Capitale, in primo luogo invariabilmente “il clima mite”, specie nei confronti degli amati/odiati cugini milanesi, ai quali si rimprovera bonariamente di vivere in mezzo a nebbie e geli, quasi abitassero in una Groenlandia padana.
Ma, come detto, quest’anno il clima si è rivelato essere traditore anche nella Città più bella del mondo, come diciamo noi romani (nonostante ci sia chi, della sua presente incarnazione, la pensi diversamente: http://www.romafaschifo.com). Ed è qui che si è distinto, in tutto lo splendore che lo contraddistingue, il personaggio che meglio incarna un certo spirito comune a queste latitudini: il Boro.
Innanzittutto occorre spiegare il significato peculiare del termine. Deriva questo – anche se l’etimologia resta incerta – dall’originario sostantivo burino, forse quale sua apocope o più precisamente “retroformazione”, erroneamente percepito come diminutivo. Ma si divaga. L’importante è che con burino, e quindi con il derivativo boro, si designa “in  dialetto romanesco… il contadino, il campagnolo e, in senso esteso, la persona rozza o volgare.” (su tutto fonte Wikipedia, voce: “burino”).
La divertente Nonciclopedia, versione satirica della già ricordata Wikipedia, si spinge ovviamente più in là, arrivando senza tema ad affermare: “nell’accezione attuale il termine burino ha assunto un significato più vasto, infatti può essere definito come l’abitante tipico di Roma.” (Nonciclopedia, voce: “burino”).
Insomma, un cafone (in senso ampio) spesso ripulito, di indole greve ma che, tipicamente, si dà pure arie e fa mostra – con effetti talora comici – di essere importante, informato, sapiente. Ognuno può aggiungere al significato sfumature più o meno ampie: il Boro in quest’ottica resta fenomeno dai contorni sfuggenti, nonostante l’ampia diffusione del soggetto.
Esiste tuttavia, a parere di chi scrive, una lieve ma percettibile differenza tra il Burino/Boro e l’altro grande esponente di una certa romanità, il Coatto. Si preavverte che non tutti sono d’accordo, per alcuni la differenza tra le due figure è chiara risiedendo nell’origine invariabilmente borgatara o comunque popolare del Coatto (così, ad esempio, ancora Wikipedia, voce: “coatto”), ove invece il Boro può invece appartenere anche a classi più agiate, ma la mancanza di educazione, cultura o sensibilità del quale ne appalesa immediatamente l’appartenenza alla grande famiglia della burinaggine innata od acquisita.
Invece la differenza fondamentale e sostanziale si deve riconoscere in ciò che il Coatto viene non già ad essere tale in forza di estrazione sociale bassa, il che cozzerebbe patentemente contro il principio di eguaglianza sancito con solennità dalla nostra Carta Costituzionale (art. 3) – non indicando la stessa alcuna differenza tra le due figure appena ricordate, e si sa che ubi lex voluit dixit – ma in ragione di una certa esagerazione nei suoi comportamenti, che divengono quasi stereotipati, prevedibili e privi di un reale approfondimento, quasi che i Coatti si calassero in una parte, con indolenza e svogliatezza (ciò che tuttavia è tipicamente il linea con l’indole capitolina), e ciò sia nelle manifestazioni sociali più comuni (ad. esempio ad un ricevimento; in fila all’ufficio postale; in coda ad un semaforo), che nelle occasioni più genuinamente tipiche del personaggio (ad esempio in una rissa in discoteca per uno sguardo rivolto alla propria fidanzata, in un improvvisato e rusticano duello per motivi automobilistici ecc.); insomma, come se si trovassero in ogni momento ad essere protagonisti od almeno comprimari d’un romanzo di Pasolini o di una pellicola di Verdone.
La verità è che il Coatto è immediatamente riconoscibile, e la stigmatizzazione generale – con relativa sanzione sociale a far da contrappunto – segue invariabilmente l’episodio di coattaggine (resta qui preferibile, in linea con il dialetto romanesco, la lezione che impone il raddoppio della g), rendendo manifesto il carattere addirittura paradossale del protagonista in parola; e scarsamente seguito se non da altri appartenenti al medesimo branco.
Non così per il Boro, che costituisce realtà ed entità maggiormente trasversale, imprevedibile nella sua manifestazione: la figlia di un noto luminare può, d’improvviso, davanti ad una vetrina in cui scorge un attore di un serial nostrano, mostrare improvvisamente sintomi di boraggine arrivando a frantumare quasi la vetrina appicciandoci il viso pur di scorgere meglio l’apprezzato interprete; il noto professionista, quando antepone al suo consueto aplomb la sua fede calcistica, dando in escandescenze ad una riconoscibilmente giusta, ma tuttavia contestata, decisione arbitrale, diviene istantaneamente Boro; la donna medio-alto borghese impellicciata (segno esso stesso di pessimo gusto e boraggine d’eccellenza, per non dir di peggio) che tenta di passare avanti alla cassa del supermarket di moda dai prezzi preoccupanti, è inappellabilmente Bora.
Insomma, senza voler andare avanti a forza di esempi, è chiaro che la detta boraggine può affiorare in ognuno di noi, in ogni momento o quantomeno in selezionate ma purtroppo non così rare occasioni.
Per completezza si indica che sono esenti da attitudine ad esser Boro, nella gran maggioranza dei casi, solo i nobili autoctoni con migliaia o almeno centinaia di anni di nobiltà alle spalle, sui quali la boraggine medesima scivola addosso senza attecchire menomamente; memorabile la scena de La dolce vita nella quale Marcello Mastroianni va ad una grande festa in un castello più o meno nel viterbese, e lì trova effettivamente una gran quantità di soggetti affetti dalla disfunzione qui in esame; sino a quando arriva l’anziana principessa, che parla in un romanaccio abbastanza spiccato ma che, pur mantiene una invidiabile classe e superiorità rispetto ad ognun altro dei presenti.
Insomma, l’attitudine alla già più volte nominata boraggine può insidiare ciascuno di noi comuni cittadini; è un rischio concreto da tenere in considerazione.
Discende da ciò che, l’episodio protrattosi per alcuni giorni della neve a Roma, non poteva che trasformarsi in un trampolino dal quale il Boro (si intende qui un campione medio dalla classe dei soggetti in esame) ha approfittato secondo l’indole che gli è propria, senza indugio.
Alla prima nevicata il suddetto si è trovato spiazzato. A poco sono valse le previsioni meteorologiche che, effettivamente, davano per certa – in minore o maggiore misura – la neve in città: egli non se l’aspettava, per il carattere naturalmente scettico che, altro carattere distintivo e peculiare, lo pervade; si è trovato di fronte all’elemento nuovo e “nemico”, ed ha reagito con malumore e rabbia, è tornato a casa intirizzito (fatto inaccettabile, il Boro preferendo la comodità ed il caldo estivo ad un rigore quale che esso sia – sempre che non si parli di quello che sta per esser calciato dalla squadra del cuore) e, esagerando un po’, ha sostenuto aver superato prove degne di un passaggio a nord-ovest: “Sono rimasto cinque ore in macchina”; “C’era mezzo metro di neve”; “Se fossi stato/a tu alla guida non ce l’avresti fatta, ho superato migliaia di macchine ferme, e sì che erano [famosa marca] a trazione integrale e dotate di gomme tecniche” (in quest’ultimo caso palesi l’iperbole autocelebrativa e il linguaggio da addetti ai lavori, altri preoccupante ma decisi tratti distintivi della categoria). Queste alcune delle voci raccolte il primo giorno.
Ma l’indomito spirito del Boro naturalmente non poteva restare inerte di fronte ad una novità così succosa; indi, già l’indomani, che – a quanto si ricorda – coincideva con il principiare del fine settimana, il suddetto ha mostrato, a se stesso così come agli altri, di trovarsi a suo agio nel candido, soffice elemento: e si son viste frotte di viaggiatori metropolitani (nel senso: passeggeri delle due linee metro di Roma, gli autobus e altri mezzi pubblici viaggiando a regime assai ridotto nell’occasione) diretti a Via del Corso, serbatoio privilegiato da sempre della categoria (contra chi la ritiene invece appannaggio esclusivo dei già ricordati sopra Coatti) e/o a Piazza Venezia e/o al Colosseo e/o, ancora, al Pincio, altro luogo topico e focale del popolo boro; e così via. Il fatto è che, specie nell’ultimo dei luoghi ricordati, il Boro non si è fatto trovare impreparato: moon boot e tute da sci imperversavano ad ogni angolo, il che sarebbe in linea di massima comprensibile; un po’ meno il trovare – da un canto – splendide fanciulle calzanti stivaletti con vertiginoso tacco a spillo; dall’altro, e più grave, caschi da sci degni, a parere di chi scrive, di una discesa libera valida per il mondiale, e naturalmente paia e paia di sci da specialità alpina (non di fondo, forse disdegnati in quanto troppo elitari e poco remunerativi in fatto di immagine), di caratura specifica e , come si è detto, tecnica, con tutto il contorno di indispensabili accessori (gialli occhiali, guanti polari e racchette sagomate, si immagina, per una migliore resa aerodinamica): per il che sembrava di vedere I. Stenmark ai tempi d’oro mentre si apprestava a vincere l’ennesima gara: il tutto, appunto, nella centrale Villa Borghese, ma anche in una delle innumere salite di cui la Città dei Sette Colli è ben munita, e così pure, purtroppo, in più centrali ed alla moda luoghi.
Ma chi scrive ha visto in piena città anche l’impiego di mezzi, in specie quad-bike pensate (sempre secondo Wikipedia) “per il trasporto di persone e cose su percorsi fuoristradistici particolarmente difficili e accidentati, quali mulattiere o greti di torrenti.”, magnificamente condotte da piloti in tute integrale e casco quali non ci si ricordava dai tempi dell’indimenticato Mister Kappa (fumetto anni ’70 ed ’80 di Cicogna e Blasco: mi scuso con i lettori più giovani se non possono ricordarlo).
Milioni di milioni, poi, le foto ricordo scattate nell’occasione dal Boro fremente in compagnia (e chi scrive, pure, si è trovato qui a far parte dei più; per fortuna non accompagnato da una apparecchio fotografico tropicalizzato con specifiche guarnizioni o-ring e luminosi zoom professionali dall’ampia escursione e imponenti dimensioni, il tutto per fotografare la ragazza con lo sfondo dell’Anfiteatro flavio lievemente imbiancato), i lanci di palle di neve, i candidi pupazzi costruiti e tosto abbelliti di sgargianti materiali di fonte e provenienza varie a mo’ di anatomici (talora irriverenti) particolari.
La neve, naturalmente, è balzata al primo posto nelle discussioni, sia in quelle – più rare – faccia a faccia, che in quelle intrattenute tramite smartphones di ultima generazione, custoditi in astucci e fodere dall’alto fattore di protezione; di sovente aventi quali interlocutori membri della propria famiglia (la mamma in primo luogo, ai timori della quale si fornivano ampie, avvedute rassicurazioni); ovvero amici, magari persi un po’ di vista negli ultimi tempi, e che si è colta al volo l’occasione di sentire giusta la bianca precipitazione (e magari il nuovo piano tariffario stipulato per l’occasione, dietro la blanda sollecitazione dell’ultimo spot televisivo con calciatore/comico/bellezza di turno).
E così pure il Boro, superato naturalmente il primo, già descritto, momento di stupore all’innevamento della città, si è prontamente munito di catene da neve per la sua (in genere recente, sgargiante) vettura, per le quali ha, purtroppo, ha dovuto talora pagare un sovrapprezzo, non per fenomeni speculativi che rimangono indimostrati (anche se popolarmente presupposti e discussi), ma forse perché desiderava un modello alpino dal grip impeccabile e dal montaggio lampo; e con esse, finalmente, ha potuto circolare nuovamente in sicurezza e per l’invidia del vicino la cui macchina era sepolta dai quindici-venti centimetri di neve; e che non aveva pensato di alzare i tergicristalli, come si fa quando la temperatura scende, diciamo, a -15 °C.
E così via: insomma, ci si perdoni se si è preso questo episodio limitato quale indicatore di stato per un intero genus; resta il fatto, che il Boro ricorderà e la cui memoria trasmetterà un giorno al figlio, piccolo Boro in potenza (Boretto opure Boriello, secondo una variante meno frequente ma tuttavia attestata), che si è trattato di un tripudio irripetibile per ogni festante rappresentante del genere in esame, che ha potuto rallegrarsi e rallegrare una città altrimenti costretta sotto un inconsueto, plumbeo cielo da neve.
Un grande rito, che ha fatto tornare ogni cittadino, e così pure ogni Boro, ai felici tempi dell’infanzia, felice di ritrovare – per una volta – la spensieratezza, in una Cittàeterna, ma eternamente piena di problemi.
Ma ci si penserà domani: finita la grande euforia, si ricadrà – ognun di noi, e comunque chi scrive – nelle più misurate, meste tentazioni di boreggiare (si perdoni il neologismo) affaccendati nelle comuni, quotidiane mansioni.
Alla prossima!

(foto di Giorgio Cara/AF/StudioMacro)

Viale del tramonto per i Blog?

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 1 febbraio 2012 by Giorgio Cara

Il Giornale di oggi, edizione online, con un articolo a firma di Matteo Sacchi dichiara perentoriamente: “L’epoca dei blog? È al tramonto” (www.ilgiornale.it/cultura/lepoca_blog__gia_tramonto/01-02-2012/articolo-id=569878). Il quotidiano milanese prende spunto da un avvenimento, sì, importante quale è la chiusura di Splinder, che è ufficialmente avvenuta ieri 31 gennaio. Di per sé, quindi, la notizia c’è: non ho bisogno di ricordare a chi mi legge l’importanza di Splinder nel mondo italiano dei Blog, ed è un vero peccato che sia venuto a mancare questo strumento di conoscenza e condivisione in un panorama che, pure, oggi mette a disposizione le piattaforme Blogger/Blogspot e WordPress (con quest’ultimo che offre peraltro la possibilità di importare i contenuti di un Blog precedentemente ospitato su Splinder).

L’articolo è ben scritto, racconta la storia di Splinder con dovizia di particolari; con toni di sincero rimpianto ricorda i bei tempi in cui i Blog venivano considerati il futuro.

Mi sembra un tantino esagerato, però, profetizzare la fine prossima del Blog tout court quale mezzo di comunicazione in ragione di un evento, tutto sommato, locale; nella specie, italiano. Wikipedia ha una voce per Splinder solo nella nostra lingua.

Secondo Sacchi stiamo assistendo al “tramonto di un’epoca”. Addirittura. Seguendo il ragionamento del giornalista avremmo tutti di punto in bianco assistito ad un avvenimento epocale, ovvero “l’avvento rapido e devastante dei social network”; e Andrea Mancia, esperto di Blog, dichiara all’articolista: “l’arrivo di social network come Facebook e Twitter ha allontanato tutti coloro che volevano solo un modo semplice di comunicare con conoscenti ed amici”.

Ora, non mi permetto di contraddire tali esperti: sono (come tutti possono vedere) un novellino di Blog e di Web 2.0 in generale, non proprio di Internet visto che già nella prima metà degli anni ’90 navigavo con Gopher/Veronica e poi con il primo browser, Mosaic; quei bei tempi in cui per divenire ricchi sarebbe bastato farsi venire l’idea di registrare un nome a dominio di senso generalissimo: facile col senno di poi 🙂 ; dicevo, sono qui l’ultimo ad arrivare, non uso e non so usare Twitter, e Facebook lo frequento, al momento, principalmente per ricevere e inviare notizie aggiornate su animalismo ed antispecismo. Però, anche con la mia parziale esperienza, rifletto spesso sul limite dei 140 caratteri dei “cinguettii” e sul magma incandescente di Facebook che ricorda tanto la compressione e lo sballottamento continuo dei corpi nel recentissimo film Faust di A. Sokurov (un capolavoro!), “come in una teca di vetro o in una palla di neve” (dalla recensione su Memorie di un giovane cinefilo, all’indirizzo: giovanecinefilo.kekkoz.com/2011/11/03/faust-aleksandr-sokurov-2011), e mi chiedo se questo necessariamente debba rappresentare lo stato attuale di internet sino all’arrivo di un Web 3.0 ancora da definire compiutamente.

Sarebbe un po’ come se si fosse sostenuto che, dai fratelli Lumière in poi, il teatro non avrebbe più avuto ragione d’essere e che, a sua volta, il cinema non sarebbe sopravvissuto all’avvento della televisione; che la fotografia avrebbe soppiantato completamente la pittura; o ancora, che oggi non si dovrebbero più stampar libri visti l’iPad e gli altri lettori di e-book (in quest’ultimo caso ci sarebbe, credo, un vantaggio immenso per l’ambiente, ma questo è un altro discorso).

E’ che un Blog, per come la vedo io, è strumento che consente di approfondire maggiormente, come in un diario – quel che poi in fondo è – le tematiche trattate, di concentrarsi su ciò che si vuole esprimere senza vincoli e senza distrazioni, con i suoi tempi per scrivere e rispondere, senza essere sommersi da un sistema che ti bombarda con frequenza impressionante con cento notifiche testuali, di immagini, di video, richieste di amicizia, causes/petizioni, messaggi d’amore e quant’altro – input che conoscono una brevissima stagione prima di essere sostituiti da nuovi, allettanti, richiami: chi vede mai quel che è successo un anno fa su Facebook? Un Blog consente di approfondire anche con scritti di una certa lunghezza un tema, contrapponendosi ad un impianto generalista quale quello dei social networks. Biancaneve, autrice del Blog Il Dolce Domani (ildolcedomani.blogspot.com) ed avida studiosa nonché lettrice dei medesimi, mi informa dell’importanza formidabile che hanno avuto i cosiddetti Cancer Blogs tra gli ammalati di tumore per raccontarsi e condividere le proprie esperienze e farsi forza l’un l’altro e soprattutto per sdoganare un tabù, ossia che dei tumori non si possa e debba parlare anche con ironia ed auto-ironia; o i Mummy Blogs che hanno creato vere e proprie comunità virtuali di neo-mamme alle prese con le loro problematiche); è insomma, un mezzo diverso e oltremodo attuale, non paragonabile ad altri; diverso e più personale, aggiungo per completezza, altresì rispetto ai Forum che pongono delle problematiche ed esigono una risposta; per non parlare infine dell’inferno 🙂 delle Chat, per le quali ammetto di non essere portato, forse a causa di raggiunti limiti d’età, e fors’anche per un principio di senilità (semi)precoce.

Un Blog è uno strumento, ecco, maturo, serio, per riflettere e far riflettere circoscrivendo un argomento, qual che esso sia. Così almeno, l’ho detto su, la vedo io. E poi, se proprio deve essere uno strumento in via d’estinzione, non sarà proprio questo a rendercelo più caro e prezioso e degno?

Lunga vita, allora, ai Blog, da parte dell’ultimo arrivato.

(foto di Giorgio Cara/AF/StudioMacro)

Dino

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 28 gennaio 2012 by Giorgio Cara

Dino. Dino nel suo letto, letto caldo, e caldo del suo corpo anziano, Dino giace laggiù, nella stanza della clinica.
Dino dorme, e sogna. Almerina, accanto a lui, giovane, amorevole, Almerina così bella che non l’ha mai capito sino in fondo.

Almerina, vicina al suo letto, non pensa a queste cose. Almerina ama, riamata, Dino.
Dino che dorme ora e che – che strano – sorride.

Dino si sveglia. Ode voci. Di là nel corridoio, lo riconosce, c’è Indro che parla con il sergente Tronk che a sua volta – se lo immagina – deve guardare smarrito, per la prima volta nella vita, la minuta presenza di Laide, Laide che, ne è certo, sta lì e tien la mano a Stefano Roi: si fanno forza quei due, poverini, così diversi, così entrambi fragili. Dino fa finta di non sentire, sentire la loro voce commossa, e il suono silente delle lacrime che composte scendono, scendono per lui.
Quant’è diverso questo posto, La Madonnina, dalle strutture asettiche dai sette piani della famosa casa di cura. Ma lui, si domanda Dino, è divenuto lui stesso un caso clinico per suscitare tanta commozione?

Suor Beniamina, nella stanza, scuote la testa. Lei a queste cose c’è abituata da tanto, e sa che Dino ha raccomandato di pregare per lui presso un Dio che però secondo lui non esiste, perché l’ha cercato tanto, questo Dio, senza trovarlo, poveretto. Ma che è pronto ugualmente, Beniamina lo sa bene, ad accoglierlo in tutta la Sua gloria. Sa che il Dottor Buzzati ha scritto una volta addirittura di un cane che aveva visto Dio, figurarsi se può respingere lui, il grande artista, pure se una volta le ha detto che non crede in Lui. Che poi da ultimo il Dottore ha dipinto tanti ex-voto a Santa Rita, le ha regalato quel bel libro che li raccoglie tutti. E può la Santa rimanere inerte di fronte a tanto?
Dove sei, o Santa dell’impossibile, si chiede Beniamina, stai intercedendo già adesso per lui?

Dino tutto questo non lo sa. Sente dei passi giù, fuori dalla finestra, e sa che è arrivato per lui il reggimento, quello che da tanto lui attende, e che è lì ad arruolarlo nei propri ranghi. E certamente in prima fila ci devono essere  i sette messaggeri, tutti parati e pronti a precedere l’arrivo del reparto.
Sa solo che cose strane, quante cose come quelle da lui descritte, da lui raffigurate possono avvenire quando è l’ora che si è aspettata così a lungo dalla culla e per sempre; l’ora grande solitaria, l’ora dell’eternità.

Dino non vede più ora, Dino non guarda ed è sordo, dorme di nuovo, dorme e sogna, sogna di morire. E fuori, di là del deserto e della montagna, di là del mare, oltre i suoi boschi, nella città reale – non l’inferno da lui immaginato, descritto, vissuto – nella città vera, lui veramente muore.
Mentre Giovanni Drogo e il Colombre e, nascosto nell’ombra che si annida anche in un corridoio ben illuminato, il Babau, tutti piangono per lui.

Dino si sveglia ancora, adesso.
Nella stanza vuota, oltre le finestre oltre tutto, inaspettata, c’è neve. Neve dappertutto.
Improvvisamente una tempesta furiosa, rabbiose folate di neve scuotono ed imbiancano la sua Milano, giù sino al suo davanzale della stanza.
E quanto vento, vento che certo viene dai più alti monti, che dalle Cinque Torri e dalle Tre Cime, dalle Pale di San Martino alla Croda da Lago, giù per la Vallunga e la Val Morel soffia giù giù verso la pianura ove lui giace in un letto. Quello stesso vento gelido delle vette silenziose che lo ha accompagnato tante volte nelle sue arrampicate, il vento delle sue amate Dolomiti.

Ed allora Dino capisce che veramente tutto si è compiuto, se anche le sue più vecchie, care amiche, le sue montagne, se anche loro hanno inviato la loro voce a salutarlo.
E così felice, solo un po’ commosso, per nulla spaventato, finalmente Dino s’abbandona, sorridendo, all’eternità, eternità nera. O di Luce?

*  *  * * *

Dino Buzzati muore a Milano il 28 gennaio 1972, mentre una tempesta di neve scuote la città.
Avevo scritto questo brevissimo racconto nel 1999 (o forse anche prima), mi è sembrata una buona idea ritirarlo fuori dal cassetto, come minuscolo omaggio per il quarantennale della scomparsa di uno dei più grandi scrittori, giornalisti e pittori che l’Italia abbia dato.
Ah, “l’eternità nera o di luce” è dal Poema a Fumetti (1969), una delle vette più elevate della poetica buzzatiana.

(foto di Giorgio Cara/AF/StudioMacro)

Due ragioni

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , on 27 gennaio 2012 by Giorgio Cara

Due ragioni per un nuovo Blog.

Mai come oggi è vero quello che qualcuno, di ogni era cui apparteneva, ebbe a dire: sono questi tempi terribili.
Tempi, quelli d’oggi, nei quali davvero ci si può smarrire nella mole di informazioni che ci scorre davanti agli occhi e ci tenta continuamente, in particolare nel mondo digitale con il suo Web 2.0.  Sono cose note: esiste un vero e proprio eccesso di informazioni, che – secondo alcuni – può condurre la nostra mente a non riuscire più ad  elaborarle. Il notissimo Marshall McLuhan ebbe poi a sostenere che “In presenza di un eccesso di informazioni, la gente ricorre immediatamente a modelli precostituiti per strutturare la propria esperienza“.

Allora, forse, anche la familiare figura di un Blog può rappresentare un minuscolo modello d’ordine in un mondo di caos, un granellino di sabbia che non scorre via dalle nostre mani vittima della spietata onda del mare (per citare Un sogno dentro un sogno di E. A. Poe).

Sperduti come granelli di sabbia, un solo ed unico impegno ci può guidare, quello della conoscenza. E’ perciò fondamentale che ognuno di noi collabori per portare avanti, nelle sue piccole o grandi (per me piccolissime) possibilità, col suo impegno, il testimone di questa conoscenza, condividendolo.

Ed arriviamo quindi ai motivi (come ho detto non sono molti, solo due) per questo Blog e alla ragione del suo titolo.

Scrivere. Lo scrivere. Com’è difficile, per molti. Basta guardarsi in giro: mai come oggi siamo davanti ad una tastiera per tutto, o quasi. Ho letto da qualche parte che l’italiano medio passa otto ore al giorno connesso a questo o quel sito. Soprattutto quello, di sito. Non facciamo nomi.
Eppure, sembra che la tastiera venga prioritariamente usata per esprimere pensieri, opinioni, sentimenti destinati purtroppo a disperdersi nel tempo (come lacrime nella pioggia, avrebbe detto Roy Batty di Blade Runner); insomma, fatui.
Se scrivere qualcosa oggi è facile, insomma, non altrettanto lo è farlo per esprimere qualcosa di duraturo; è un qualcosa che può assumere forme varie, alcune più ricche ed operose d’altre. Può solleticare la vanità. Può essere un imperio, un’esigenza interiore che – nei migliori dei casi – produrrà un risultato artistico. Scrivere può divenire, per altri, terapeutico; quantomeno sarà meno caro di una seduta dallo psicoanalista. Non parliamo poi di un ciclo di cura.

E poi, se scrivere è a volte difficile, non più facile sembra sia il suo sbocco per così dire naturale, il leggere. Siamo un popolo che non legge, anche qui le statistiche sono desolanti, ma chiarissime. Si acquistano in media pochi, mi sembra addirittura pochissimi (due?) libri a testa ogni anno, probabilmente per regalarli. Libri che forse non verranno neppure letti.
Ma se non si legge, come si può pretendere di scrivere manifestando il proprio pensiero in qualcosa di più complesso della lista della spesa? Non a caso grande successo ottengono oggi i bottoni “Mi piace”, semplificazione massima del giudizio su una qualsiasi produzione, non solo testuale purtroppo. Temo che queste cose, a lungo andare, comprometteranno la stessa capacità di giudicare, riducendo il tempo attuale ad amare o detestare, full black o immacolato bianco, megagalattico od abissale.

Sto divagando. E’ che leggere non è affatto facile. Perché occorre capacità di scelta, gusto, concentrazione,  e intelligenza del testo; leggere è più difficile che andare al cinema, è faticoso, alle volte sembra impossibile. Ho lasciato M. Proust e la sua Ricerca alla fine del primo capitolo, alla tazza del tè con i biscotti madeleine; e Sein und Zeit di M. Heidegger non ha avuto miglior sorte (primissime pagine); non ho mai finito neppure il Viaggio al termine della notte di L. F. Céline.
Per i film, al massimo, mi sono addormentato. Ma poi mi sono fatto raccontare il finale (un mio amico aveva quest’abitudine anche per i film porno).
Ve lo immaginate, farsi raccontare come procede da un punto in poi, come finisce un libro?

Giacomo Casanova fuggì nel 1756 dai Piombi, la famigerata prigione di Venezia (benché non la più terribile). Anni dopo, in giro per l’Europa come avventuriero, in buona parte grazie alla sua rocambolesca evasione che aveva narrato  in un vivace racconto, si sentiva chiedere da ogni parte il resoconto di quella memorabile esperienza. Una volta glielo chiese addirittura una testa coronata, forse addirittura Federico II di Prussia, al che serafico Casanova rispose (cito a memoria):
“Volentieri. Maestà, ma Vi avverto, ci vorranno almeno due ore.”
“Non è possibile”, replicò il sovrano, “non ho tempo. Raccontatemi ordunque tutto in quindici minuti, è il massimo che posso degnarmi di concedervi.”
“Maestà, non ce la faccio.”
“Ma che dite? Tanto per cominciare, ditemi per quale ragione eravate finito in prigione.”
“Ecco, appunto, per raccontarVi quello ci metterei appunto quindici minuti, ed altrettanti per narrarVi le circostanze del mio arresto, e venti per descrivere il mio ingresso sotto i Piombi. Per arrivare alla fuga, quindi, occorreranno almeno due ore.”
Ci racconta Casanova che Sua Maestà convenne a questo punto che lui, Giacomo Girolamo Casanova, aveva ragione. E rinunciò a farsi raccontare la storia della famosa fuga.

Ma quelli erano altri tempi, in cui anche un celebre avventuriero si svegliava,  pranzava e faceva persino l’amore discorrendo di arte, letteratura e filosofia – e pure Socrate, il padre del discorso dialettico, a quanto ci raccontano, soleva passare le sue sere con amici (alcuni dei quali decisamente di bell’aspetto) filosofeggiando e banchettando allo stesso tempo, sino a che la sua celebre, bisbetica moglie, Santippe, non andava a raccoglierlo la mattina dopo, quando era, chissà, impegnato ancora a discettare di filosofia con Agatone e pochi altri fedeli. Povera donna, Santippe, doveva pensare ad una Confraternita del Chianti di John Fante ante litteram

Il dialogare. Dialogare è importante, ce lo ricordano i dialogatori professionisti che, nelle nostre città, ci fermano simpaticamente per chiedere una firma e, subito dopo, il codice IBAN della nostra banca, il tutto – per carità – per cause che sono, per loro, sempre buone ed ottime. Ma è importantissimo per mantenere accesa – in questi tempi terribili ecc. 🙂 – la fiamma del sapere; è una fiammella piccola, che ognuno di noi ha in sé; nelle menti più geniali è piuttosto un incendio interiore, che si propaga a tutto quello che c’è intorno, spesso divora il mondo intero, e tutti noi ci abbeveriamo ogni giorno, alla luce ed al calor bianco di qualcuno di questi sommi. E possiamo, nel nostro piccolo, propagare quella luce e quel calore. Discutendo, dialogando, discettando, scambiandoci opinioni e criticando. La critica non è quasi mai inutile, se non è fatta per insultare. Ma anche qui, serve a qualificare la personalità che la esprime; viene alla mente lo J. L. Borges del trattatello del 1933, imperdibile come quasi tutto Borges, Arte dell’insulto. Che si chiude con la memorabile frase di Michele Serveto ai giudici che lo avevano condannato al rogo: “Brucerò, ma questo è soltanto un fatto. Continueremo a discutere nell’eternità”.

Questo Blog, Il Dialogo Probabilmente, è allora un tentativo di scrivere qualcosa utile a propagare un po’ di quella luce che,  anche in tempi come questi, illumina il mondo. E di dialogarci sopra.
Ho preso a parziale prestito il titolo del film di Robert Bresson del 1977 Il diavolo probabilmente, uno delle opere più lucide e disincantate della sua generazione, che parla di un gruppo di amici che si preoccupano, con l’ardore della giovinezza tipico di quelle stagioni irripetibili, di temi come l’inquinamento, l’ecologia, il futuro del mondo, credendo che si possa e si debba cambiare lo stato delle cose. Ma è soprattutto la storia di Charles, uno di loro, che disilluso da tutto e da tutti, pianificherà sin nei minimi dettagli, filosoficamente, la sua uscita di scena. Ma…
Recitato dagli attori come se stessero leggendo un saggio, è un capolavoro di cui propongo, a mo’ di commiato, un brevissimo estratto (che, N.B., non è un trailer e non contiene musica, né questo è un sito commerciale 🙂 ) da una memorabile, corale, scena che peraltro dà al film il suo inquietante titolo:


Un cordiale saluto di benvenuto, allora, a chi passerà da queste parti.

(foto di Giorgio Cara/AF/StudioMacro)