Dino
Dino. Dino nel suo letto, letto caldo, e caldo del suo corpo anziano, Dino giace laggiù, nella stanza della clinica.
Dino dorme, e sogna. Almerina, accanto a lui, giovane, amorevole, Almerina così bella che non l’ha mai capito sino in fondo.
Almerina, vicina al suo letto, non pensa a queste cose. Almerina ama, riamata, Dino.
Dino che dorme ora e che – che strano – sorride.
Dino si sveglia. Ode voci. Di là nel corridoio, lo riconosce, c’è Indro che parla con il sergente Tronk che a sua volta – se lo immagina – deve guardare smarrito, per la prima volta nella vita, la minuta presenza di Laide, Laide che, ne è certo, sta lì e tien la mano a Stefano Roi: si fanno forza quei due, poverini, così diversi, così entrambi fragili. Dino fa finta di non sentire, sentire la loro voce commossa, e il suono silente delle lacrime che composte scendono, scendono per lui.
Quant’è diverso questo posto, La Madonnina, dalle strutture asettiche dai sette piani della famosa casa di cura. Ma lui, si domanda Dino, è divenuto lui stesso un caso clinico per suscitare tanta commozione?
Suor Beniamina, nella stanza, scuote la testa. Lei a queste cose c’è abituata da tanto, e sa che Dino ha raccomandato di pregare per lui presso un Dio che però secondo lui non esiste, perché l’ha cercato tanto, questo Dio, senza trovarlo, poveretto. Ma che è pronto ugualmente, Beniamina lo sa bene, ad accoglierlo in tutta la Sua gloria. Sa che il Dottor Buzzati ha scritto una volta addirittura di un cane che aveva visto Dio, figurarsi se può respingere lui, il grande artista, pure se una volta le ha detto che non crede in Lui. Che poi da ultimo il Dottore ha dipinto tanti ex-voto a Santa Rita, le ha regalato quel bel libro che li raccoglie tutti. E può la Santa rimanere inerte di fronte a tanto?
Dove sei, o Santa dell’impossibile, si chiede Beniamina, stai intercedendo già adesso per lui?
Dino tutto questo non lo sa. Sente dei passi giù, fuori dalla finestra, e sa che è arrivato per lui il reggimento, quello che da tanto lui attende, e che è lì ad arruolarlo nei propri ranghi. E certamente in prima fila ci devono essere i sette messaggeri, tutti parati e pronti a precedere l’arrivo del reparto.
Sa solo che cose strane, quante cose come quelle da lui descritte, da lui raffigurate possono avvenire quando è l’ora che si è aspettata così a lungo dalla culla e per sempre; l’ora grande solitaria, l’ora dell’eternità.
Dino non vede più ora, Dino non guarda ed è sordo, dorme di nuovo, dorme e sogna, sogna di morire. E fuori, di là del deserto e della montagna, di là del mare, oltre i suoi boschi, nella città reale – non l’inferno da lui immaginato, descritto, vissuto – nella città vera, lui veramente muore.
Mentre Giovanni Drogo e il Colombre e, nascosto nell’ombra che si annida anche in un corridoio ben illuminato, il Babau, tutti piangono per lui.
Dino si sveglia ancora, adesso.
Nella stanza vuota, oltre le finestre oltre tutto, inaspettata, c’è neve. Neve dappertutto.
Improvvisamente una tempesta furiosa, rabbiose folate di neve scuotono ed imbiancano la sua Milano, giù sino al suo davanzale della stanza.
E quanto vento, vento che certo viene dai più alti monti, che dalle Cinque Torri e dalle Tre Cime, dalle Pale di San Martino alla Croda da Lago, giù per la Vallunga e la Val Morel soffia giù giù verso la pianura ove lui giace in un letto. Quello stesso vento gelido delle vette silenziose che lo ha accompagnato tante volte nelle sue arrampicate, il vento delle sue amate Dolomiti.
Ed allora Dino capisce che veramente tutto si è compiuto, se anche le sue più vecchie, care amiche, le sue montagne, se anche loro hanno inviato la loro voce a salutarlo.
E così felice, solo un po’ commosso, per nulla spaventato, finalmente Dino s’abbandona, sorridendo, all’eternità, eternità nera. O di Luce?
* * * * *
Dino Buzzati muore a Milano il 28 gennaio 1972, mentre una tempesta di neve scuote la città.
Avevo scritto questo brevissimo racconto nel 1999 (o forse anche prima), mi è sembrata una buona idea ritirarlo fuori dal cassetto, come minuscolo omaggio per il quarantennale della scomparsa di uno dei più grandi scrittori, giornalisti e pittori che l’Italia abbia dato.
Ah, “l’eternità nera o di luce” è dal Poema a Fumetti (1969), una delle vette più elevate della poetica buzzatiana.
(foto di Giorgio Cara/AF/StudioMacro)
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